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estratto Corte di Cassazione Sentenza 25 febbraio 2016, n. 13681

FATTO

1. Il Tribunale di (omissis) ha affermato la responsabilità dell’imputato indicato in epigrafe in ordine al reato di cui all’art. 186, commi 2, lett. b), e 2-bis, del codice della strada commesso il 15 marzo 2011.

La sentenza è stata parzialmente riformata dalla Corte di appello di (omissis) che ha escluso l’aggravante di cui al richiamato comma 2-bis ed ha rideterminato la pena.

2. L’imputato ha presentato ricorso per cassazione, deducendo tre motivi.

2.1. Con il primo motivo si prospetta violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. L’imputato, contrariamente a quanto ritenuto nella pronuncia impugnata, non ha subito condanne per reati analoghi; e la precedente concessione del beneficio non è ostativa alla sua reiterazione.

2.2. Con il secondo motivo s’invoca l’applicazione della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis c.p.

2.3. Infine, si denunzia mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di riduzione della pena.

2.4. Ha fatto seguito la presentazione di una memoria difensiva.

3. La Quarta Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla compatibilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. con i reati previsti dall’art. 186, comma 2, lett. b) e c), cod. strada, e più in generale con gli illeciti caratterizzati dalla presenza di soglie di punibilità.

L’ordinanza richiama la pronunzia di legittimità che ha ritenuto la compatibilità tra il nuovo istituto ed i reati di cui all’art. 186, comma 2, cod. strada (Sez. 4, n. 44132 del 9 settembre 2015, Longoni, Rv. 264829) e propone argomenti critici.

Si rammenta che l’art. 186, comma 2, lett. a), prevede un illecito amministrativo costituito dalla guida in stato di ebbrezza con tasso alcoolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 g/l; mentre le successive lett. b) e c) dello stesso comma disciplinano distinti illeciti penali definiti da valori crescenti.

Si considera che il legislatore ha già compiuto a monte una valutazione di maggiore o minore pericolosità, rapportata ad un preciso dato tecnico costituito dal tasso alcoolemico. Pertanto il giudice, applicando la nuova normativa, si sostituirebbe al legislatore, non disponendo di altri parametri cui ancorare il giudizio di tenuità; ed essendo irrilevanti le modalità della condotta di guida, che ben possono variare da caso a caso.

Si aggiunge che si tratta di reati di pericolo intesi a proteggere i beni della regolarità della circolazione e della sicurezza stradale, distinti da quelli della vita o della incolumità dei singoli, protetti dai reati di lesioni colpose ed omicidio colposo. Se ne inferisce che nessun rilievo possono avere, ai fini della punibilità, le modalità della condotta di guida. Infatti, in relazione ai beni protetti, non è possibile ipotizzare una gradualità dell’offesa, atteso che lo stesso legislatore ha previsto circostanze aggravanti connesse a contingenze di particolare allarme e maggiore pericolo per la sicurezza: la guida in ora notturna e la causazione di incidente stradale.

Si argomenta infine che l’applicazione della normativa di cui si discute condurrebbe ad un esito paradossale: l’autore di un illecito di minore gravità andrebbe incontro ad una sanzione amministrativa pecuniaria ed alla sospensione della patente di guida, mentre l’autore dell’illecito penale potrebbe evitare le relative sanzioni.

Si conclude che occorre ritenere che il legislatore abbia già implicitamente escluso la possibilità di attribuire connotazioni di particolare tenuità ai reati di cui si discute.

L’ordinanza discute criticamente pure l’affermazione della sentenza Longoni secondo cui, nel caso in cui sia ritenuta la particolare tenuità del fatto, il giudice penale deve applicare le sanzioni amministrative accessorie. Si considera che tali sanzioni sono applicabili solo nel caso di sentenza di condanna o di applicazione della pena, come emerge testualmente dall’art. 186, comma 2-quater, cod. strada. Pertanto, non è possibile ritenere che il mero accertamento dell’esistenza del reato, che costituisce il presupposto della causa di non punibilità, consenta l’applicazione delle dette sanzioni.

Dunque, valutando le cose “da un punto di vista sostanziale” l’applicazione del nuovo istituto avrebbe l’effetto, ritenuto non congruo, di escludere pure le sanzioni amministrative accessorie, che non di rado costituiscono la parte più afflittiva dell’apparato sanzionatorio.

4. Con decreto del 21 dicembre 2015 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite e ne ha disposto la trattazione nell’udienza odierna.

DIRITTO

1. Va dapprima esaminato il secondo motivo di ricorso, che propone una questione pregiudiziale rispetto a quelle dedotte con gli altri motivi.

Al riguardo occorre considerare che l’art. 131-bis c.p. è stato introdotto con l’art. 1, comma 2, d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, e quindi in epoca successiva alla pronunzia d’appello, emessa il 10 febbraio 2015 e relativa a fatto commesso il 15 marzo 2011.

Questa Corte ha in numerose occasioni condivisibilmente ritenuto che, se non è stato possibile proporlo in grado di appello, il tema afferente all’applicazione del nuovo istituto può essere dedotto davanti alla Corte di cassazione e può essere altresì rilevato d’ufficio ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p. (da ultimo Sez. 3, n. 24358 del 14 maggio 2015, Ferretti, Rv. 264109; Sez. 4, n. 22381 del 17 aprile 2015, Mauri, Rv. 263496; Sez. 3, n. 15449 dell’8 aprile 2015, Mazzarotto, Rv. 263308).

Si è infatti in presenza, come sarà meglio esposto nel prosieguo, di innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilità e che reca senza dubbio una disciplina più favorevole. Il novum trova quindi applicazione retroattiva ai sensi dell’art. 2, quarto comma, c.p. L’elevato rango del principio espresso da tale ultima norma impone la sua applicazione ex officio, anche in caso di ricorso inammissibile, come ritenuto recentemente dalle Sezioni unite. Si è infatti condivisibilmente affermato il diritto dell’imputato, desumibile dal principio in questione, ad essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo; ed il dovere del giudice di applicare la lex mitior, anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia, Rv. 265110).

Naturalmente, quando non sia in questione l’applicazione della sopravvenuta legge più favorevole ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p., la inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità e la rilevabilità di ufficio della causa di non punibilità.

2. Appurata la rilevanza della nuova disciplina, resta da intendere quale sia il ruolo della Corte di cassazione. In proposito si è ripetutamente ritenuto che vada compiuta una preliminare delibazione in ordine all’applicabilità in astratto del nuovo istituto sulla base degli elementi di giudizio disponibili alla stregua delle risultanze processuali e della motivazione della decisione impugnata; e che, in caso di valutazione positiva, la sentenza impugnata debba essere annullata con rinvio ai giudice di merito per le pertinenti valutazioni e statuizioni (oltre alle sentenze sub § 1, da ultimo, Sez. 3, n. 21474 del 22 aprile 2015, Fantoni, Rv. 263693; Sez. 4, n. 33821 del 1° luglio 2015, Pasolini, Rv. 264357).

In qualche pronunzia, peraltro, è stata pure ritenuta la possibilità di applicare direttamente, ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. l), c.p.p., la causa di non punibilità quando risulti palese dalla sentenza impugnata la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi formali della stessa, e un apprezzamento del giudice di merito che consenta di ritenere coerente la conclusione che il caso di specie debba essere ricondotto alla previsione di cui all’art. 131-bis c.p. (Sez. 6, n. 45073 del 16 settembre 2015, Barrara, Rv. 265224; Sez. 5, n. 48020 del 7 ottobre 2015, V., Rv. 265467).

Il tema di cui si discute chiama effettivamente in campo l’art. 620, comma 1, lett. l), c.p.p. che consente alla Corte di cassazione di adottare pronunzia di annullamento senza rinvio quando la restituzione del giudizio nella sede di merito è “superflua”; quando, cioè, per quel che qui interessa, non è richiesta una valutazione sul fatto estranea al sindacato di legittimità.

Tale norma è stata ripetutamente ritenuta dalle Sezioni Unite fonte per l’adozione di pronunzie assolutorie nella sede di legittimità (Sez. un., n. 22327 del 30 ottobre 2003, Andreotti, Rv. 226100; Sez. un., n. 22327 del 21 maggio 2003, Carnevale, Rv. 224181); oltre che dalle sezioni semplici (ad es. Sez. 2, 11 novembre 2010, n. 41461, Franzi, Rv. 248927). Essa ha costituito pure la base normativa per applicare una causa di non punibilità sopravvenuta (ad es. Sez. 6, n. 9727 del 18 febbraio 2014, Grieco, Rv 259110; Sez. 6, n. 17065 del 26 aprile 2012, Cirillo, Rv. 252506).

In tali situazioni la pronunzia è adottata ai sensi dell’art. 129 c.p.p. Né un ostacolo può essere rinvenuto nel fatto che tale articolo, pur dedicato nella rubrica all’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, non fa menzione dell’ipotesi in cui ricorra una causa di non punibilità. Invero la norma ha portata generale, sistemica. Essa, come già ritenuto dalle Sezioni unite (Sez. un., n. 12283 del 25 gennaio 2005, De Rosa, Rv. 230529), non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che, operando in ogni stato e grado del processo, presuppone l’esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio. In breve, atteso l’indicato ruolo sistemico, l’articolo citato consente l’adozione di tutte le formule di proscioglimento.

Occorre infine aggiungere che l’applicazione del meccanismo processuale di cui si discute non è preclusa nell’ambito del nuovo istituto, a causa del diritto dell’imputato all’interlocuzione. Invero, il giudizio di legittimità è caratterizzato da ampio contraddittorio scritto ed orale su ogni aspetto della regiudicanda. E d’altra parte, naturalmente, la Corte non potrebbe comunque prosciogliere l’imputato con una formula meno favorevole di quella enunciata nella sentenza di merito; ma dovrebbe semmai addivenire ad esito più favorevole, come nel caso di sopravvenuta prescrizione, pure se il fatto è specialmente tenue.

3. Resta da intendere quale sia la natura e la conformazione del giudizio demandato alla Corte di cassazione.

Anticipando quanto sarà esposto più avanti, va considerato che la valutazione sulla particolare tenuità del fatto richiede l’analisi e la considerazione della condotta, delle conseguenze del reato e del grado della colpevolezza. Si tratta di ponderazioni che sono parte ineliminabile del giudizio di merito e che sono conseguentemente espresse in motivazione, magari in guisa implicita. Sulla base del fatto accertato e valutato dalla sentenza impugnata, dunque, il giudice di legittimità è nella condizione di esperire il giudizio che gli è proprio, afferente all’applicazione della legge; di accertare, cioè, se la fattispecie concreta è collocata entro il modello legale espresso dal nuovo istituto.

Conclusivamente, quando la sentenza impugnata sia anteriore alla novella, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza che si debba rinviare il processo nella sede di merito. Ove esistano le condizioni di legge, l’epilogo decisorio è costituito, alla luce di quanto si è prima esposto ed alla stregua degli artt. 620, comma 1, lett. l), e 129 c.p.p., da pronunzia di annullamento senza rinvio perché l’imputato non è punibile a causa della particolare tenuità del fatto.

4. Chiarito il contenuto del giudizio di legittimità, occorre intendere se l’art. 131-bis c.p. sia applicabile al reato oggetto del giudizio.

Il quesito di diritto devoluto alle Sezioni Unite è infatti “se la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto sia compatibile con il reato di guida in stato di ebbrezza”.

La sentenza Longoni, evocata nell’ordinanza di rimessione, ha dato risposta positiva. Si è considerato che il nuovo istituto si giustifica alla luce della riconosciuta graduabilità del reato in relazione al disvalore d’azione e d’evento nonché all’intensità della colpevolezza. Occorre, dunque, compiere una valutazione relativa al fatto concreto; verificare se la irripetibile manifestazione dell’illecito presenti un ridottissimo grado di offensività.

Si è conseguentemente ritenuto che non vi sono ostacoli ad applicare l’istituto anche ai reati di pericolo astratto o presunto. In particolare, la previsione di un valore-soglia per la configurazione del reato svolge la sua funzione sul piano della selezione categoriale, mentre la particolare tenuità del fatto richiede un “vaglio tra le epifanie nella dimensione effettuale”.

Il principio, si è aggiunto, è applicabile anche in relazione alla più grave fattispecie di cui all’art. 186, comma 2, lett. c), cod. strada, dovendosi considerare non solo l’entità dello stato di ebbrezza, ma anche le modalità della condotta e l’entità del pericolo o del danno cagionato.

Tale esito interpretativo non è pregiudicato dalla previsione di un minore grado di alterazione che configura un illecito amministrativo. Infatti, reato ed illecito amministrativo presentano differenze evidenti e rilevanti, che definiscono autonomi statuti e discipline differenziate. Peraltro, si è infine aggiunto, l’applicazione della causa di non punibilità presuppone l’accertamento del reato, dal quale discende l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria ad opera del giudice penale.

5. Questo approccio non presenta aspetti critici per ciò che attiene all’applicabilità del nuovo istituto al caso in esame; e le obiezioni esposte nell’ordinanza di rimessione non colgono nel segno.

Il tema, peraltro, non può essere esaminato in astratto, ma richiede di partire dal dato testuale. Occorre considerare che il legislatore ha limitato il campo d’applicazione del nuovo istituto in relazione alla gravità del reato, desunta dalla pena edittale massima; ed alla non abitualità del comportamento.

In tale ambito, come sarà meglio esplicitato più avanti, il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza.

L’ordinanza di rimessione, dunque, non coglie nel segno e pecca di astrattezza quando lega il nuovo istituto al principio di offensività.

Le Sezioni Unite hanno già avuto occasione, recentemente, di evocare le radici e le inespresse potenzialità ermeneutiche del principio di offensività (Sez. un., n. 40354 del 18 luglio 2013, Sciuscio, Rv. 255974). Si è rammentata la sua costituzionalizzazione, conseguita attraverso la lettura integrata di diverse norme della legge fondamentale. Si è pure posto in luce (e lo si ribadisce nella presente sede) che l’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi; offensivi in misura apprezzabile. I beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto. Sul piano ermeneutico viene così superato lo stacco tra tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato vanno ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicché tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità; e di dare contenuto tangibile alle espressioni vaghe che spesso compaiono nelle formule legali.

Da quanto precede emerge che il principio di offensività attiene all’essere o non essere di un reato o di una sua circostanza; e non è invece implicato nell’ambito di cui ci si occupa, che riguarda per definizione fatti senza incertezze pienamente riconducibili alla fattispecie legale.

La distinzione va sottolineata, anche per rispondere alle preoccupazioni espresse da chi teme che la nuova figura, consentendo di devitalizzare vicende marginali, finisca con il depotenziare il principio di offensività quale chiave per la congrua restrizione dell’area del penalmente rilevante.

6. In realtà il nuovo istituto è esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale. Esso persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione. Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo. Proporzione e deflazione s’intrecciano coerentemente.

Il dato normativo conduce senza dubbi di sorta a tale esito interpretativo. Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede, infatti, una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, c.p. Si richiede, in breve, una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta; e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto.

Per ciò che qui interessa, non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica. È la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore. Come è stato persuasivamente considerato, qualunque reato, anche l’omicidio, può essere tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco.

7. Di particolare ed illuminante rilievo è il riferimento testuale alle modalità della condotta, al comportamento. La nuova normativa non si interessa della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena.

Insomma, si è qui entro la distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto storico, situazione reale ed irripetibile costituita da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente; secondo l’insegnamento espresso nella pagina fondativa del fatto nella teoria generale del reato. Ed è chiaro che la novella intende per l’appunto riferirsi alla connotazione storica della condotta, essendo in questione non la conformità al tipo, bensì l’entità del suo complessivo disvalore.

Allora, essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta; ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto. L’opinione contraria manifestata dall’ordinanza di rimessione è deviata dalla impropria sovrapposizione tra il fatto tipico ed il fatto storico; tra l’offesa e la sua entità.

Dunque, pure nei reati senza offesa, di disobbedienza, o comunque poveri di tratti descrittivi, contrassegnati magari da una mera omissione o da un rifiuto, la valutazione richiesta dalla legge è possibile e doverosa, dovendosi considerare la concreta manifestazione del fatto illecito.

Del resto, l’esperienza giuridica mostra esempi eloquenti: non è certo indifferente, nella ponderazione del disvalore del fatto e del bisogno di pena, se un comportamento che si estrinseca in un mero rifiuto sia accompagnato da manifestazioni di irriguardosa e violenta opposizione o sia invece dovuto ad una non completa comprensione del contesto, ovvero a concomitanti esigenze personali socialmente apprezzabili.

Per di più, la tesi espressa dall’ordinanza di rimessione condurrebbe a conseguenze paradossali: l’inapplicabilità dell’istituto ai reati bagatellari, caratterizzati di solito dall’omissione di una prescrizione, con conseguente frustrazione delle finalità deflative sottese alla novella. Pure per tali reati, invece, occorre considerare il contesto: l’entità, l’oggetto, gli effetti della condotta ed ogni altro elemento significativo.

8. Tale ricostruzione dell’istituto trova ulteriore conferma nella necessità di compiere le valutazioni di cui si discute alla luce dell’art. 133, primo comma, c.p.

Il richiamo mette in campo, oltre alle caratteristiche dell’azione e alla gravità del danno o del pericolo, anche l’intensità del dolo e il grado della colpa. A tale riguardo sono state manifestate perplessità, alimentate dal timore che vengano richieste indagini complesse sulla sfera interiore, incompatibili con la spedita applicazione del nuovo istituto, e possibili cause di derive incontrollabili nell’esercizio della discrezionalità

Si tratta di dubbi che non sono fondati. La pertinenza del richiamo emerge icasticamente dalla stessa intitolazione dell’art. 133, dedicato alla valutazione della gravità del reato agli effetti della pena; atteso che il nuovo istituto è stato configurato proprio come una causa di esclusione della punibilità.

D’altra parte, occorre considerare che se è vero che lo sviluppo del progetto normativo ha in più occasioni mostrato di preferire la considerazione dei tratti più obiettivabili rifuggendo dai profili interiori, tuttavia, come ormai comunemente ritenuto, anche l’elemento soggettivo del reato penetra nella tipicità oggettiva. Ciò è particolarmente chiaro nell’ambito della colpa, ove rileva il tratto obiettivo della violazione della regola cautelare. Ma anche nell’ambito del dolo condotta e colpevolezza s’intrecciano.

Soprattutto, infine, la dottrina della colpevolezza è troppo profondamente legata al tema della pena e della sua commisurazione perché se ne possa prescindere del tutto nell’ambito della valutazione sulla sua meritevolezza richiesta dalla novella. Si vuol dire che razionalmente, nel disciplinare la graduazione dell’illecito, si è fatto riferimento non solo al disvalore di azione e di evento ma anche al grado della colpevolezza.

La rilevanza del profilo soggettivo emerge, del resto, dal parere espresso dalla Camera sullo schema di decreto legislativo. Si è considerato che il parametro della modalità della condotta consente valutazioni anche di natura soggettiva sul grado della colpa e sull’intensità del dolo; e si è quindi proposto di introdurre il richiamo esplicito all’art. 133, primo comma, c.p. che compare nell’atto normativo.

Tali brevi considerazioni corroborano la prospettata ricostruzione della nuova figura giuridica. Essendo richiesta la ponderazione della colpevolezza in termini di esiguità e quindi la sua graduazione, è del tutto naturale che il giudice sia chiamato ad un apprezzamento di tutte le rilevanti contingenze che caratterizzano ciascuna vicenda concreta ed in specie di quelle afferenti alla condotta; ed è quindi escluso che una preclusione possa derivare dalla modesta caratterizzazione, sul piano descrittivo, della fattispecie tipica.

9. L’approccio proposto può essere ripetuto in guisa non molto dissimile per ciò che riguarda la ponderazione dell’entità del danno o del pericolo. Anche qui nessuna precostituita preclusione categoriale è consentita, dovendosi invece compiere una valutazione mirata sulla manifestazione del reato, sulle sue conseguenze.

L’ordinanza di rimessione sembra dubitare che siffatta valutazione possa esser fatta con riguardo a illeciti nei quali sia impossibile o difficile compiere un apprezzamento gradualistico rapportato all’entità della lesione od esposizione a pericolo di un bene giuridico; o nei quali la misurazione sia stata espressa direttamente dal legislatore attraverso l’individuazione di soglie, fasce di rilevanza penale o di graduazione dell’entità dell’illecito.

Pure tale dubbio è ingiustificato. Esso è ancora una volta determinato dall’idea che la valutazione afferente all’esiguità del fatto o dell’offesa debba essere articolata nel rispetto della tradizione che lega il principio di offensività alla lesione od esposizione a pericolo del bene giuridico. Si tratta di un approccio che non tiene conto della disciplina legale.

Il legislatore, come si è accennato, ha esplicato una complessa elaborazione per definire l’ambito dell’istituto. Da un lato ha compiuto una graduazione qualitativa, astratta, basata sull’entità e sulla natura della pena; e vi ha aggiunto un elemento d’impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo alla abitualità o meno del comportamento. Dall’altro lato ha demandato al giudice una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado della colpevolezza. Ha infine limitato la discrezionalità del giudizio escludendo alcune contingenze ritenute incompatibili con l’idea di speciale tenuità: motivi abietti o futili, crudeltà, minorata difesa della vittima ecc.

Da tale connotazione dell’istituto emerge un dato di cruciale rilievo, che deve essere con forza rimarcato: l’esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza. E potrà ben accadere che si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente.

Da quanto precede discende che la valutazione inerente all’entità del danno o del pericolo non è da sola sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità dei fatto. Tale conclusione è desunta non solo dalla complessiva articolazione della disciplina cui si è sopra fatto cenno, ma anche da due argomenti specifici.

In primo luogo, il legislatore ha espressamente previsto che la nuova disciplina trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. Dunque, anche in presenza di un danno di speciale tenuità l’applicazione dell’art. 131-bis è pur sempre legata anche alla considerazione dei già evocati indicatori afferenti alla condotta ed alla colpevolezza.

D’altra parte, quando si è voluto evitare che la graduazione del reato espressa in una circostanza aggravante ragguagliata all’entità della lesione sia travolta da elementi di giudizio di segno opposto afferenti agli altri indicatori previsti dalla legge lo si è ha fatto esplicitamente: l’offesa non può essere ritenuta tenue quando la condotta ha cagionato, quale conseguenza non voluta, lesioni gravissime.

In breve, è stata accolta in tutto e per tutto la concezione gradualistica del reato già nitidamente scolpita nell’insegnamento Carrariano: «nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalità del suo concreto modo di essere nella individualità criminosa nella quale si estrinseca»; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non può che essere rimesso al magistrato «perché l’uomo deve essere condannato secondo la verità e non secondo le presunzioni». Si tratta, d’altra parte, di approccio non solo tradizionale ma anche moderno, ripreso dagli studiosi che hanno analizzato i mutevoli pesi dell’esperienza giuridica proprio per cogliervi criteri di selezione di comportamenti per l’appunto minori, meritevoli di trattamento differenziato.

10. Alla luce di tali considerazioni è possibile rispondere agli interrogativi che riguardano la fattispecie in esame. Essa si inscrive nella categoria degli illeciti che presentano una soglia quantitativa che segna l’ambito di rilevanza penale del fatto o che regola la gravità dell’offesa. Qui il dato oggetto di misurazione è il tasso alcoolemico.

Orbene, è chiaro che il superamento della soglia di rilevanza penale coglie il minimo disvalore della situazione dannosa o pericolosa. Il giudice che ritiene tenue una condotta collocata attorno all’entità minima del fatto conforme al tipo, contrariamente a quanto ritenuto dall’ordinanza di rimessione, non si sostituisce al legislatore, ma anzi ne recepisce fedelmente la valutazione.

Naturalmente, pure in tale caso la valutazione riguarda la fattispecie concreta nel suo complesso e quindi tutti gli aspetti già più volte evocati, che afferiscono alla condotta, alle conseguenze del reato ed alla colpevolezza.

Chiaramente, quanto più ci si allontana dal valore-soglia tanto più è verosimile che ci si trovi in presenza di un fatto non specialmente esiguo. Tuttavia, nessuna conclusione può essere tratta in astratto, senza considerare cioè le peculiarità del caso concreto. Insomma, nessuna presunzione è consentita.

Tale conclusione, desunta dai principi espressi dalla nuova normativa, è anche perfettamente aderente al senso comune ed alla pratica giudiziaria. È illuminante l’esempio, già evocato dalla sentenza Longoni, dell’agente che, in stato di grave alterazione alcoolica integrante la fattispecie di cui all’art. 186, comma 2, lett. c), si pone alla guida di un’auto in un parcheggio isolato, spostandola di qualche metro e senza determinare alcuna situazione pregiudizievole.

 

11. Resta da esaminare l’obiezione per cui la valutazione sulla tenuità del fatto è preclusa nell’ambito delle fattispecie in cui non è richiesto l’accertamento della concreta pericolosità della condotta tipica.

A tale riguardo occorre considerare che la contravvenzione di cui si discute si inscrive effettivamente nella categoria di illeciti in cui la pericolosità della condotta tipica è tratteggiata in guisa categoriale: è ritenuta una volta per tutte dal legislatore, che individua comportamenti contrassegnati, alla stregua di informazioni scientifiche o di comune esperienza, dall’attitudine ad aggredire il bene oggetto di protezione. Si tratta, in breve, dei reati di pericolo presunto; nessuna indagine è richiesta sulla fattispecie concreta e sulla concreta pericolosità in relazione al bene giuridico oggetto di tutela. Si tratta, è bene rammentarlo, di una categoria di illeciti che trova frequente espressione in reati contravvenzionali connotati proprio dal superamento di valori soglia ritenuti per l’appunto tipicamente pericolosi.

Orbene, non è da credere che tale conformazione della fattispecie faccia perdere il suo ancoraggio all’idea di pericolo ed ai beni giuridici che si trovano sullo sfondo. Al contrario, come ormai diffusamente ritenuto, si tratta di illeciti che presentano un forte legame con l’archetipo della pericolosità e garantiscono, anzi, il rispetto del principio di tassatività, assicurando la definita conformazione della fattispecie alla stregua di accreditate informazioni scientifiche e di razionale ponderazione degli interessi in gioco; ed eliminando gli spazi di vaghezza e discrezionalità connessi alla necessità di accertare in concreto l’offensività del fatto.

Da tale ricostruzione della categoria discende che, accertata la situazione pericolosa tipica e dunque l’offesa, resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato, ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell’illecito, quale sia lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inscrive e quale sia, in conseguenza, il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato.

Per esemplificare, non è per nulla indifferente nella ottica gradualistica che qui interessa, che l’irregolare scarico di acque reflue avvenga in un territorio riccamente urbanizzato, magari con fonti di approvvigionamento idrico; o che avvenga, invece, in un luogo assai remoto privo di significative connessioni, dirette o indirette, con oggetti pertinenti alla tutela ambientale.

È agevole, a questo punto, tradurre le indicate enunciazioni di principio nell’ambito di cui ci si occupa, non prima, però, di aver posto un’ultima preliminare precisazione. Non può ritenersi che lo sfondo di tutela del reato di cui all’art. 186, comma 2, sia quello della regolarità della circolazione. Istanze di sicurezza e regolarità della circolazione permeano, nel complesso, il codice della strada. Tuttavia la nostra contravvenzione ha una evidente e ben poco mediata correlazione con i beni della vita e dell’integrità personale. Tale conclusione non si trae solo da diretta, vivida e comune fonte esperienziale. È la stessa disciplina legale a fornire univoca indicazione in tal senso. Il comma 2-bis prevede che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, il reato è aggravato. Più in generale, l’art. 222 prevede severe sanzioni amministrative accessorie quando dalla violazione di norme del Codice derivano danni alle persone.

Dunque, conclusivamente, il doveroso apprezzamento in ordine alla gravità dell’illecito connesso all’applicazione dell’art. 131-bis consente ed anzi impone di considerare se il fatto illecito abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni indicati. Nuovamente, appare illuminante l’esempio prima proposto: non è indifferente che il veicolo sia stato guidato per pochi metri in un solitario parcheggio o ad elevata velocità in una strada affollata, magari generando un incidente.

12. Tale conclusione non è ostacolata neppure dalla considerazione che al di sotto della soglia di rilevanza penale esiste una fattispecie minore che integra un illecito amministrativo. Invero, come già evidenziato dalla sentenza Longoni, l’illecito penale e quello amministrativo, pur essendo parti del più ampio diritto punitivo, presentano differenze tanto evidenti quanto rilevanti, che delineano autonomi statuti. Tale condivisa enunciazione si pone sulla scia di ripetute prese di posizioni delle Sezioni Unite che, da ultimo, hanno avuto occasione di ribadire la piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali (Sez. un., n. 25457 del 29 marzo 2012, Campagne Rudie, Rv. 252694).

Ancor più, occorre considerare che la pena costituisce sanzione specialmente afflittiva e reca comunque un peculiare stigma. Ciò giustifica razionalmente che la sua inflizione sia oggetto di una speciale considerazione ispirata, appunto, dalla valutazione in ordine [alla] sua concreta necessità.

13. Il tema da ultimo trattato impone di esaminare, infine, la questione problematica afferente agli effetti della pronunzia ex art. 131-bis c.p. sulle sanzioni amministrative accessorie. Come si è visto, la sentenza Longoni e l’ordinanza di rimessione propongono soluzioni opposte: l’una ammette, l’altra esclude l’irrogazione di tale sanzione. Le diverse soluzioni, come pure si è accennato, hanno qualche riflesso nella discussione sull’applicabilità del nuovo istituto al reato di guida in stato di ebbrezza.

Nessuna delle due prospettazioni è fondata. La nuova normativa non reca alcuna indicazione al riguardo. Tuttavia, la fattispecie di cui ci si occupa è collocata in un organico corpus normativo che agli artt. 224 e 224-ter disciplina l’applicazione delle dette sanzioni. Quando la sentenza di condanna, di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. o il decreto penale sono irrevocabili, l’autorità amministrativa dà corso all’esecuzione delle sanzioni accessorie disposte dal giudice. Invece, in caso di sentenza di proscioglimento, la stessa autorità dispone la cessazione delle eventuali misure adottate in via provvisoria: la patente ed il veicolo vengono restituiti.

La normativa si occupa pure dell’estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell’imputato: l’amministrazione, verificata l’esistenza delle condizioni di legge, procede all’applicazione delle sanzioni amministrative.

In breve, quando manca una pronunzia di condanna o di proscioglimento, le sanzioni amministrative riprendono la loro autonomia ed entrano nella sfera di competenza dell’amministrazione pubblica. Tale regola è espressa testualmente con riferimento all’istituto della prescrizione, ma ha impronta per così dire residuale: è cioè dedicata alle situazioni in cui condanna o proscioglimento nel merito manchino. Essa, dunque, trova razionale applicazione anche nel contesto in esame in cui, appunto, il fatto non è punibile per la sua tenuità e non si fa quindi luogo ad una pronunzia di condanna.

Tale soluzione interpretativa, fondata sulla ritrovata autonomia della sanzione accessoria, trova conferma nell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 224 e del comma 6 dell’art. 224-ter: l’estinzione della pena successiva alla sentenza irrevocabile di condanna non ha effetto sull’applicazione della sanzione amministrativa accessoria. Tale enunciazione rende viepiù chiara la virtuale autonomia delle sanzioni amministrative, che si manifesta anche a seguito dell’estinzione delle sanzioni penali. E non vi è chi non veda che coerenza del sistema impone di ritenere che tale autonomia si manifesti anche nel caso in cui la punibilità sia esclusa a mente della nuova normativa.

Si può dunque concludere che il nuovo istituto si limita, razionalmente, a richiedere un giudizio sull’utilità o l’inutilità della pena e non ha riflessi sulle sanzioni amministrative previste dal codice della strada, che sono governate da istanze e regole distinte.

Da tutto quanto precede si trae la definitiva conclusione che nessuna preclusione osta all’applicazione della nuova normativa al reato in discussione.

14. Come si è sopra accennato, l’ambito applicativo del nuovo istituto è definito non solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche da un profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento. Tale ultimo aspetto presenta concreta rilevanza nel presente giudizio. Infatti, dal certificato penale emerge che l’imputato ha subito condanne per violazione delle norme sulla immigrazione clandestina, con pena sospesa; guida in stato di ebbrezza; guida senza patente; uso di atto falso e violazione dell’obbligo di fermarsi in caso di incidente. Occorre dunque intendere quale sia la portata del terzo comma dell’art. 131-bis che definisce il comportamento abituale.

Sebbene la relazione al decreto legislativo ritenga esemplificative le indicazioni offerte dalla norma, è condivisibile l’opinione diffusa ed autorevole che si sia in presenza di norma tassativa, di tipizzazione dell’abitualità. Tale interpretazione è confermata dal fatto che il progetto originario aveva deliberatamente omesso di definire l’abitualità al fine di lasciare al giudice spazi di manovra che, invece, il legislatore ha evidentemente ritenuto di dover eliminare.

Il testo della legge lascia subito intendere che il nuovo istituto dell’abitualità è frutto del sottosistema generato dalla riforma ed al suo interno deve essere letto. Sarebbe dunque fuorviante riferirsi esclusivamente alle categorie tradizionali, come quelle della condanna e della recidiva. In breve, secondo opinione comune e condivisa, la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti “seriali”.

Alcune indicazioni della nuova normativa sono chiare, atteso il riferimento ad istituti codicistici: delinquente abituale, professionale, per tendenza.

Parimenti non oscuro è il riferimento alla commissione di «più reati della stessa indole». In primo luogo, non si parla di condanne ma di reati. Inoltre, il tenore letterale lascia intendere che l’abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis. In breve, il terzo illecito della medesima indole dà legalmente luogo alla serialità che osta all’applicazione dell’istituto.

Tale interpretazione è in linea con l’idea di serialità delle condotte che, come si è accennato, ha dall’inizio accompagnato l’iter del decreto, ma è controversa. Esiste, tuttavia un dato testuale che risulta dirimente. La Commissione Giustizia, nel vagliare lo schema di decreto legislativo, ne ha richiesto l’adeguamento con l’introduzione di un comma dedicato alla definizione dell’abitualità del comportamento recante la previsione che «Il comportamento risulta abituale nel caso in cui il suo autore […] abbia commesso altri reati della stessa indole». Tale formula è stata in effetti riportata nell’atto normativo con una piccola e sicuramente accidentale variazione: l’espressione “altri reati” è divenuta “più reati”. Dunque tenendo a base il testo indicato dalla Camera e la sua ratio, emerge che l’alterità al plurale dei reati diversi da quello oggetto del processo non lascia dubbio che la serialità ostativa si realizza quando l’autore faccia seguire a due reati della stessa indole un’ulteriore, analoga condotta illecita.

I reati possono ben essere successivi a quello in esame, perché si verte in un ambito diverso da quello della disciplina legale della recidiva; ed è in questione un distinto apprezzamento in ordine, appunto, alla serialità dei comportamenti.

La pluralità dei reati può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza; come ad esempio nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui.

Ulteriore questione è se il reato ritenuto non punibile per tenuità (e conseguentemente iscritto nel casellario) rilevi ed in che modo ai fini di cui si discute. A tale riguardo occorre premettere che la procedura di memorizzazione delle pronunzie adottate per tenuità dell’offesa costituisce strumento essenziale per la stessa razionalità ed utilità dell’istituto. Infatti è agevole cogliere che l’assenza di annotazione determinerebbe, incongruamente, la possibilità di concessione della non punibilità molte volte nei confronti della stessa persona.

Né appaiono condivisibili le preoccupazioni di chi vede in tale memorizzazione un vulnus a diritti fondamentali, quando l’accertamento dell’esistenza del reato implicato in tale genere di pronunzia non sia avvenuto all’esito del giudizio. Tali perplessità non tengono conto del fatto che l’annotazione è l’antidoto indispensabile contro l’abuso dell’istituto. Se questo è il trasparente scopo della previsione, non si scorge per quale ragione chi abbia fruito del beneficio all’esito di una procedura che lo ha personalmente coinvolto, possa dolersi della discussa annotazione. Occorre tuttavia ribadire che la trascrizione della decisione serve e rileva solo all’interno del sottosistema di cui ci si occupa.

Il rilievo dell’accertamento in ordine all’esistenza dell’illecito implicato dalla dichiarazione di non punibilità è allora esattamente e solo quello di costituire un “reato” che, sommato agli altri della stessa indole richiesti dalla legge nei termini di cui si è detto, dà luogo alla legale abitualità del comportamento.

Insomma, nella valutazione complessiva afferente al giudizio di abitualità ben potranno essere congiuntamente considerati reati oggetto di giudizio ed illeciti accertati per così dire incidentalmente ex art. 131-bis.

Infine è da considerare l’ultima categoria di reati indicati dalla norma: quelli che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Il legislatore evoca senz’altro, in primo luogo, reati che presentano l’abitualità come tratto tipico: il pensiero corre subito, esemplificativamente, al reato di maltrattamenti in famiglia. Analogamente per ciò che riguarda i reati che presentano nel tipo condotte reiterate. Anche qui un esempio si rinviene agevolmente nel reato di atti persecutori. In tali ambiti, può dirsi, la serialità è un elemento della fattispecie ed è quindi sufficiente a configurare l’abitualità che esclude l’applicazione della disciplina; senza che occorra verificare la presenza di distinti reati.

Meno agevole è intendere il riferimento alle condotte plurime. Non è tuttavia inevitabile liberarsi del problema interpretativo ritenendo che si sia in presenza di una mera, sciatta ripetizione di ciò che è stato denominato abituale o reiterato; ed occorre piuttosto cercare di dare un distinto senso all’espressione. Orbene, l’unica praticabile soluzione interpretativa è quella di ritenere che si sia fatto riferimento a fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti. Anche qui un esempio: un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione, da un consolidato regime di disinteresse per la sicurezza. In una situazione di tale genere la pluralità e magari la protrazione dei comportamenti colposi imprime al reato un carattere seriale, id est abituale.

15. I principi sin qui esposti possono essere sintetizzati come segue.

– “L’art. 131-bis c.p. si applica ad ogni fattispecie criminosa, in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla medesima norma”.

– “Il comportamento è abituale quando l’autore ha commesso, anche successivamente, più reati della stessa indole, oltre quello oggetto del procedimento”.

– “Alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto consegue l’applicazione, demandata al Prefetto, delle sanzioni amministrative accessorie stabilite dalla legge”.

– “La inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità e la rilevabilità di ufficio di tale causa di esclusione della punibilità”.

– “Nei soli procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, la relativa questione, in applicazione dell’art. 2, quarto comma, c.p., è deducibile e rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p.”.

– “La Corte di cassazione, se riconosce la sussistenza di tale causa di non punibilità, la dichiara d’ufficio ex art. 129, comma 1, c.p.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata a norma dell’art. 620, comma 1, lett. l), c.p.p.”.

16. Alla luce di tale lettura della disciplina legale occorre ritenere che le indicate precedenti condanne configurino l’abitualità del comportamento che esclude l’applicazione del nuovo istituto. Infatti, anche a tralasciare la condanna per guida senza patente, illecito recentemente depenalizzato, figurano le indicate due condanne per illeciti previsti dal codice della strada che vanno senz’altro ritenute della stessa indole di quella oggetto del presente giudizio.

È sufficiente rammentare, a tale proposito, che l’art. 101 c.p. reca una definizione di illecito della stessa indole che individua due categorie: una formale, riferita alla violazione della stessa disposizione di legge, ed una per così dire sostanziale, connessa ai caratteri fondamentali comuni dovuti alla natura dei fatti che li costituiscono o ai motivi determinanti.

La categoria sostanziale individua diversi parametri, di cui va rimarcata la alternatività; e che, per espressa enunciazione della definizione legale, afferiscono ai casi concreti. Il primo parametro, d’impronta oggettiva, attiene alla natura dei fatti. L’altro, soggettivo, coglie i motivi determinanti, le finalità della condotta.

Interessa qui considerare che il parametro oggettivo, nella sua vaghezza legata all’evocazione della natura dei fatti, chiama in causa diversi fattori. Da un lato la natura dei beni giuridici protetti dalle diverse incriminazioni che, con tutta evidenza, costituisce il più sicuro e tangibile “collante” tra i reati; dall’altro le connotazioni delle diverse condotte concrete, che pure possono ben esprimere le sostanziali connessioni tra gli illeciti rilevanti ai fini del giudizio affidato al giudice.

Già in passato la Corte di cassazione ha colto, non sempre organicamente, la indicata varietà di parametri che, alternativamente, valgono a definire la stessa indole dei reati, ponendo l’accento sul bene giuridico e sulle modalità esecutive (da ultimo, Sez 6, n. 53590 del 20 novembre 2014, Genchi, Rv. 261869; Sez. 1, n. 44255, del 17 settembre 2014, Durdev, Rv. 260800; Sez.1, n. 27906 del 15 aprile 2014, Stocco, Rv. 260500). Si è in particolare fatto riferimento, tra l’altro, alle circostanze oggettive, alle condizioni di ambiente e di persona nelle quali le azioni sono state compiute, ad aspetti che in qualche guisa rendano evidente l’inclinazione verso un’identica tipologia criminosa, a modalità di esecuzione che rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa (Sez. 3, n. 3362 del 4 ottobre 1996, Barrese, Rv. 206531).

Tale varietà dei parametri rende chiaro che il criterio classificatorio prescinde dalla distinzione tra delitti e contravvenzioni, reati dolosi e colposi.

D’altra parte va rimarcato, per l’interesse che la questione presenta nel presente giudizio, che il ripetuto, condiviso riferimento all’importante criterio dell’identità o affinità del bene giuridico proietta la valutazione di cui si discute in una dimensione categoriale; e la allontana dall’ambito delle contingenti vicende giuridiche. Ciò conduce a ritenere che si tratta di valutazione afferente alla sfera legale e quindi non estranea al giudizio di legittimità.

Orbene, il criterio oggettivo del bene giuridico accomuna i reati di cui agli artt. 186, comma 2, e 189, commi 6 e 7, cod. strada. Infatti, come si è sopra accennato, le indicate incriminazioni vietano comportamenti posti in essere nell’ambito della circolazione stradale che rischiano di determinare o aggravare conseguenze lesive nei confronti delle persone e quindi, sia pure in modo mediato, colgono i beni giuridici della vita e dell’integrità personale.

Dunque, conclusivamente, essendosi in presenza di comportamento abituale desunto dalla serialità dei reati, non vi sono le condizioni per l’applicazione al caso in esame dell’istituto di cui all’art. 131-bis c.p.

17. Il primo ed il terzo motivo di ricorso sono privi di pregio. La pronunzia impugnata considera che l’imputato ha riportato numerose condanne anche per reati analoghi ed ha già fruito della sospensione condizionale della pena. Se ne inferisce che la prognosi è assolutamente negativa; e quindi, con implicita evidenza, che non vi sono le condizioni per la concessione del richiesto beneficio della sospensione condizionale della pena.

Pur in presenza di tale negativo profilo di personalità, la pena è stata comunque diminuita per effetto dell’esclusione dell’aggravante.

Si tratta di valutazioni basate su significativi elementi di giudizio ed immuni da vizi logici o giuridici; e quindi non sindacabili nella presente sede di legittimità.

Il ricorso deve essere conseguentemente rigettato. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 6 aprile 2016.