Stalking minacce percosse lesioni stupefacenti penale
estratto Cassazione Num. 20968 Anno 2015
[Omissis] ha derubricato l’originaria imputazione di atti persecutori (articolo 612 bis cod.pen.), posta in essere da [Omissis] nei confronti del coniuge! [Omissis] in quella di tentata violenza privata e molestie (articoli 56, 610 e 660 cod.pen.).
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, lamentando:
1) la inosservanza o erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla diversa qualificazione giuridica dei fatti;
2) la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio applicato;
3) la inosservanza o erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla mancata sostituzione della pena detentiva con quella della libertà controllata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato solo con riferimento all’ultimo motivo.
2. Quanto al primo motivo giova premettere come sia stato l’odierno ricorrente in grado di appello a chiedere l’ottenuta derubricazione e che la motivazione dell’impugnata decisione non sia manifestamente illogica nell’aver ritenuto le condotte ascritte (appostamento presso la Casa Famiglia ove trovavasi la moglie e il tentativo di sottrarre uno dei figli alla madre) non integranti la originaria contestazione del c.d. staiking.
Invero, la fattispecie criminosa di atti persecutori (stalking), di cui all’articolo 612 bis cod.pen., tutela il singolo cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure. Essa è finalizzata a garantire alla personalità individuale l’isolamento da influenze perturbatrici.
Ipotesi speciale rispetto a tale reato è il delitto di violenza privata, per la cui configurazione non è sufficiente che sia stato indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità, fungendo invece da elemento specializzante io scopo di costringere altri, contro la sua volontà, a fare, tollerare od omettere qualcosa, impedendone la libera determinazione con una condotta immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica (di determinazione e azione) del soggetto passivo.
Nel delitto di cui all’articolo 610 cod.pen., il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di costringere il destinatario della violenza a tenere, contro la sua volontà, la condotta pretesa dall’agente.
La sussistenza degli elementi fattuali e dell’elemento soggettivo della violenza privata appare correttamente individuata dalla Corte di merito a fronte di un accertato singolo comportamento rivolto, con atti idonei diretti in modo non equivoco, ad interferire nella condotta di vita della parte offesa ai fini di sottrarre il figlio [Omissis] del quale, l’odierno imputato, aveva perso la potestà parentale e verso il quale esisteva il divieto di avvicinamento.
Analogamente, quanto alla ritenuta sussistenza della contravvenzione di cui all’articolo 660 cod.pen., deve essere rilevato come, per pacifica giurisprudenza di questa Corte di legittimità, il reato di molestie, per sua natura non necessariamente abituale, possa essere realizzato anche con una sola azione (v. Cass. Sez. I 8 luglio 2010 n. 29933 e Sez. I 7 novembre 2013 n. 3758).
La condotta di appostarsi presso la sede della Casa Famiglia ove risiedeva la moglie, sicuramente configura il reato in questione, realizzando “molestia” in senso giuridico, posto che ha costretto la molestata a una non voluta visione dell’agente, peraltro vietata per motivi inerenti l’affidamento dei figli.
3. Con riferimento al secondo motivo, si osserva come le attenuanti generiche, nel nostro ordinamento, abbiano lo scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole al reo, in considerazione di situazioni e circostanze particolari che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità di delinquere dell’imputato.
Il riconoscimento di esse richiede, dunque, la dimostrazione di elementi di segno positivo.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientra nel potere discrezionale del Giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso Giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
Anche il Giudice di appello, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante, non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur In carenza di stretta contestazione.
Nella fattispecie in esame, la Corte di merito, nel corretto esercizio dell’indicato potere, ha ritenuto di non considerare prevalenti le già concesse attenuanti per l’assorbente considerazione dell’inesistenza di aggravanti nei nuovi reati accertati e verso le quali operare il giudizio di comparazione di cui all’articolo 69 cod.pen.
Carente d’interesse è il motivo relativo al trattamento sanzionatorio. Infatti, nel corpo della motivazione della Corte territoriale, sembrerebbe essere stata determinata correttamente la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione (pena base per il delitto di cui agli articoli 56 e 610 cod.pen. anni uno e mesi sei di reclusione, aumentata ad anni due per la continuazione con la contravvenzione di cui all’articolo 660 cod.pen. e ridotta di un terzo per il rito) mentre nel dispositivo, anche quello letto all’esito dell’udienza dibattimentale, si ridetermina la pena del primo grado (anni uno e mesi quattro di reclusione) in quella di mesi dieci di reclusione.
Non sussiste, pertanto, interesse dell’imputato all’ottenimento di una pena più grave.
4. Fondato, come già detto in precedenza, è l’ultimo motivo del ricorso e cioè quello relativo alla mancata sostituzione della pena detentiva in pena alternativa ai sensi dell’articolo 53 della L. 689/81.
A tal proposito si osserva come del tutto erroneo sia il convincimento espresso nella impugnata decisione, che ha escluso la possibilità di effettuare la sostituzione a cagione della irrogazione di una sanzione eccedente i limiti
biennali di cui all’indicata disposizione; irrogazione, in ogni caso, non esistente sia con riferimento a quanto espresso nella motivazione (anni uno e mesi sei) che nel dispositivo (mesi dieci).
L’impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata senza rinvio [Omissis]